C’è bilancio umano e sociale per l’insensata guerra che si è scatenata in Ucraina, ed è un bilancio tragico. Accanto a esso c’è però anche un bilancio economico, che tutti ben conosciamo: energia e materie prime alle stelle, industria in difficoltà, allevamenti in forte perdita per l’impennata di materi prime e alimenti come mais e soia.
Tenendo fede alla nostra testata, ci occupiamo però di macchine agricole: sia la Russia, sia e soprattutto l’Ucraina, sono infatti paesi con una fortissima vocazione agricola e con un’industria meccanica diffusa, anche se tecnologicamente arretrata rispetto a quella occidentale. I due paesi rappresentano quindi due mercati potenzialmente immensi per tutti i costruttori di mezzi agricoli europei e statunitensi. Nonché italiani: negli ultimi trent’anni, dapprima timidamente poi con sempre più convinzione i fabbricanti di casa nostra hanno iniziato a esplorare le possibilità di business a Est. Abbiamo così voluto analizzare la situazione, per capire quanto la guerra in corso – e le conseguenti sanzioni verso la Russia – danneggeranno le imprese agromeccaniche italiane.
Dopo aver interpellato molti attori della filiera possiamo dire di aver individuato quattro temi fondamentali, che potrebbero rappresentare – e talvolta già rappresentano – altrettanti pericoli per chi commercia con la Federazione Russa.
Partire, arrivare, farsi pagare
Il primo problema è legato alle sanzioni, a causa delle quali non è facile esportare in Russia. Alcuni costruttori – come Cnh, per fare un esempio eclatante – hanno bloccato ogni attività verso il paese di Putin, adeguandosi alle decisioni di Stati Uniti e Ue, ma anche chi ha continuato a inviare macchine agricole, se non altro per onorare ordini precedenti il blocco, spesso incontra difficoltà per i trasporti. Questo perché la via naturale per arrivare in Russia passava, fino al 24 febbraio, attraverso l’Ucraina. Si ha notizia di spedizioni mai partite, fermate in qualche dogana o perse non si sa bene dove.
Il vero nodo è però quello dei pagamenti: l’espulsione di diversi istituti bancari dal sistema Swift ha complicato il trasferimento di fondi. Che resta possibile, ma appoggiandosi a metodi ormai sorpassati – come il fax, per esempio – e basandosi su un rapporto di fiducia tra chi spedisce la merce e chi deve inviare il pagamento. Lo Swift serviva proprio a questo: accelerare il trasferimento di denaro e garantire che i soldi fossero in viaggio. Per questo motivo, alcune spedizioni, da quanto ci dicono, sono state rinviate o dirottate verso altri paesi, altri hanno preferito rischiare. Anche perché non è facile ricollocare macchine pensate per estensioni così grandi: non si possono certo piazzare in Italia o in paesi del Mediterraneo.
Infine, non possiamo dimenticare il problema del cambio. In tre settimane di guerra il rublo si è svalutato del 40% circa rispetto all’euro, aumentando il costo delle macchine di quasi il doppio, proprio mentre gli agricoltori russi vivono, come tutti in quel paese, una pesantissima crisi economica. E questo è un altro chiaro effetto del sistema di sanzioni.
Ucraina: tutto fermo
Molto più sbrigativo analizzare la situazione in Ucraina: con il paese sotto attacco e molte zone occupate o teatro di combattimenti, quasi ogni scambio di beni è interrotto. Non, fortunatamente, lo scambio di esseri umani: le aziende italiane ed europee con filiali (quasi tutte commerciali, non produttive) in quel Paese si sono attivate per dare assistenza ai dipendenti. Abbiamo avuto notizia di decine di casi in cui sono state organizzate missioni di soccorso per recuperare i dipendenti ucraini autorizzati all’espatrio e i loro famigliari (tutti tranne gli uomini in età da combattimento). Molti sono stati trasportati in Italia, altri hanno chiesto di essere condotti in paesi europei in cui vivono parenti o conoscenti.
Malavolti: mercato limitato ma non trascurabile
Iniziamo il nostro giro di testimonianze dall’ufficialità di Federunacoma. «Indicativamente – esordisce il presidente Alessandro Malavolti – il commercio verso la Russia pesa per circa il 2,5% sul totale delle esportazioni di macchine agricole. A ciò si deve aggiungere un altro 1,2% di export verso l’Ucraina e un 1,5% circa dovuto alla componentistica o a macchine finite, vendute però da marchi europei (come nel caso delle mietitrebbie Fendt prodotte a Breganze, ndr). In tutto, quindi, siamo attorno al 4,5% dell’export, pari a un 3,5% circa dei bilanci dei costruttori italiani».
Cifre non gigantesche, dunque, ma perdere la possibilità di vendere migliaia di macchine non fa certamente piacere a nessuno. «No. Soprattutto perché – prosegue Malavolti – si tratta di un mercato potenzialmente enorme, fatto per lo più di coltivazioni in campo aperto e con un parco macchine in buona parte obsoleto, che stavamo progressivamente cercando di modernizzare. Ora è tutto in stand-by e credo che difficilmente la Russia tornerà a essere appetibile prima di quattro o cinque anni. Discorso diverso per l’Ucraina, dove non appena termineranno i combattimenti si dovrà ricostruire tutto quanto, agricoltura compresa».
Qualche caso
Da Claas a John Deere, sono tanti i marchi occidentali che stavano facendo buoni affari nei due paesi. Il gruppo tedesco, per esempio, ha uno stabilimento di assemblaggio in Russia, ora chiuso.
Sebbene le macchine di produzione italiana siano meno adatte alle enormi estensioni delle steppe, anche parecchi nostri costruttori avevano una buona presenza in quei paesi. Il gruppo Cnh, per esempio, vi vendeva mietitrebbie e trattori di alta potenza ed era – sostiene – uno tra i maggiori fornitori occidentali di macchine agricole, con 207 dipendenti nella regione di Mosca, un centro di assemblaggio in Naberezhnye Chelny e 28 concessionarie, oltre a 38 dipendenti e dieci distributori in Ucraina.
Il gruppo ex Fiat è stato tra i primi ad adeguarsi al regime di sanzioni, annunciando fin dai primi giorni di guerra lo stop alle spedizioni verso Russia e Bielorussia e cercando di dare assistenza alle famiglie dei 38 dipendenti presenti nella filiale ucraina. Lo stabilimento di Chelny, ci dicono da Modena, sta producendo le sue ultime unità con il materiale rimanente.
Meno esposto verso quelle aree il gruppo Argo Tractors, che fa comunque sapere di risentire del rincaro di materie prime ed energia connesso alla crisi. «La verticalizzazione del nostro processo industriale, col 65% del valore in componenti prodotto internamente, riesce a compensare in parte i disagi e ci consente di continuare a soddisfare le richieste dei clienti», spiega il direttore commerciale Antonio Salvaterra.
Situazione complessa anche per i movimentatori telescopici, un settore che nei due paesi era, secondo gli addetti ai lavori, in lenta ma costante crescita da anni e già oggi valeva circa il doppio del mercato italiano. A ciò si aggiungono le difficoltà legate al fatto che per alcuni componenti i costruttori si rifornivano da ditte ucraine, oggi ovviamente ferme.
Passiamo alle attrezzature. Nessun commento, vista la delicatezza del momento, dal gruppo Maschio-Gaspardo, che negli ultimi anni ha investito con convinzione sulla Russia. Parla invece Luca Casotto, uno dei soci della Hortech, storico produttore di attrezzi per orticoltura con diversi clienti nei due paesi in conflitto. «Anche oggi (metà marzo, ndr) abbiamo delle macchine pronte a partire per la Russia. Sulla carta dovrebbero ritirarle, poi vedremo. La vera difficoltà, con la svalutazione del rublo, non è tanto quella di organizzare il viaggio, quanto di essere pagati. Un problema che coinvolge anche i nostri clienti, che sono poi fornitori di materie prime e alimenti per il mercato russo. Pensiamo soltanto a tutti quelli che producevano la rucola per gli 850 ristoranti chiusi da Mc Donald dopo l’inizio delle ostilità. So di agricoltori che stanno macinando decine di ettari di valeriana e rucola in quanto non trovano a chi venderla».
Concludiamo con Matermacc, costruttore di seminatrici e irroratrici, alcune delle quali decisamente adatte, per dimensione, alle condizioni di lavoro russe e ucraine. «La Russia rappresenta per noi il secondo mercato in ordine di valore. Registriamo problemi logistici, con camion fermi per giorni alla frontiera tra Polonia e Bielorussia, e anche finanziari, visto che la maggior parte delle banche russe non può più accedere al sistema Swift».
LA GUERRA DEI TRATTORI
Trattori rubati, trattori che rubano, trattori bombardati. La guerra non risparmia alcun settore dell’Ucraina e men che meno l’agricoltura, che in un paese ribattezzato “granaio d’Europa” è chiaramente una presenza costante. Così – e al netto della propaganda di guerra, sempre in agguato – gli agricoltori e le loro macchine sono in prima linea nella resistenza all’invasione.
Tutti hanno visto i video di trattori più o meno obsoleti che trainano carri armati o mezzi blindati dell’esercito russo, compresa la bravata dei due contadini che soffiano un tank sotto al naso dei carristi. A quanto pare far sparire mezzi militari è un’abitudine diffusa o almeno lo era finché i russi non hanno cominciato a sparare anche sui civili. Il più delle volte, comunque, carri armati e lanciarazzi erano stati abbandonati in quanto danneggiati o senza carburante.
Perché accade anche questo: sottostimando ampiamente i tempi di conquista, i russi si sono mossi con poche scorte e sono ben presto rimasti a corto di rifornimenti, stando alle notizie che giungono in Occidente. Secondo alcune fonti hanno perciò iniziato a requisire le scorte di carburante delle aziende agricole ma gli ucraini le hanno contaminate provocando danni ai motori. Secondo una fonte ucraina questa sarebbe una delle ragioni per cui ai bordi delle strade si incontrano così tanti mezzi in panne.
Infine il ministero della Difesa ucraino ha dato notizia, nei primi giorni di marzo, di diversi attacchi al parco macchine di grandi aziende agricole nelle regioni di Kiev, Zaporizhia e Chernihiv. In altri casi i trattori sarebbero stati requisiti per realizzare fortificazioni o trainare blindati.
C'È ANCHE L'IMPORT
Quella che unisce Italia e Russia è una strada a doppio senso di marcia. Sicuramente più trafficata in direzione Est, ma comunque percorsa anche verso il nostro Paese. A essere importati, in questo caso, non sono tanto macchine agricole quanto componenti e soprattutto stampati. Come spiega il presidente di Federunacoma Alessandro Malavolti – si veda in queste pagine – l’Ucraina è un fornitore di lamiere, fusioni e lavori di carpenteria pesante. L’interruzione degli invii ha messo in difficoltà più di un costruttore locale, con anche alcuni casi di fermo produttivo. Certamente non stiamo parlando della Cina, ma basta questo a dimostrare quanto il mondo, con la globalizzazione, sia ormai interamente connesso e una crisi si ripercuota con effetti imprevedibili a migliaia di chilometri di distanza.