Meglio, a mio modesto parere, Murakami (“L’equilibrio in sé è il bene”) che Bukowski (“L’individuo equilibrato è un pazzo”).
Difficile riuscire a trovare stabilità. D’azione. E di pensiero.
In un momento in cui le istituzioni europee, di qualsiasi tipo, sono messe in forte discussione e la stessa impalcatura comunitaria traballa, l’agricoltura si trova nel bel mezzo di un curioso guado.
Girando per i campi, fra prove di meccanizzazione e giornate di presentazione di anteprime, spesso si sentono imprenditori agricoli e contoterzisti guardare con ammirazione le nuove tecnologie e, fra il sussurrato e il ‘brontolesco’, sottolineare il fatto che l’acquisto di una determinata macchina molto avanzata diventa sempre più difficile a causa dell’elevato costo iniziale e del non secondario e conseguente mantenimento.
«Ci servono finanziamenti ad hoc». «Ora partono i Piani di sviluppo rurale. Speriamo che qualcosa si muova». «La nuova Pac stringe ancora di più i cordoni della borsa: non si riesce più a investire». La raccolta di affermazioni può continuare molto, ma il senso rimane uno solo: la redditività in agricoltura langue, mancano risorse e liquidità, servono supporti specifici. E, senza l’intervento delle politiche di Bruxelles, declinate nelle diverse maniere possibili, la cosa si fa ancora più complessa. Tornando al guado, da un lato si accusa la politica agricola comunitaria di essere cattiva matrigna. Di non dare a sufficienza - o di dare male - a un settore strategico come quello agricolo. Dall’altro si invocano, quasi come divina provvidenza, le misure comunitarie capaci di smuovere risorse impensabili, di rivitalizzare comparti in debito d’ossigeno, di tornare a spingere vendite immobilizzate da tempo. Ora appare evidente che il manicheismo non giova e che l’invocato equilibrio può servire a un’analisi più serena. Il dialogo con le istituzioni comunitarie continua a essere difficile ma - cacofonicamente - continua a essere più che necessario. La nuova Pac, che accompagnerà l’agricoltura fino al 2020, non è la migliore politica possibile. Anzi. Ancora oggi, momento di domande, ci si barcamena, ci si confronta con iter inestricabili, non si comprendono misure o azioni. Ma poteva andare peggio. Sensibilmente peggio. E, anche in questo caso, occorre provare a bere quel mezzo bicchiere che è stato riempito. Mentre scriviamo sono stati approvati da Bruxelles 5 Piani di sviluppo rurale regionali italiani. Pochi, troppo pochi. Nonostante i limiti e le intransigenze comunitarie, si doveva essere ben più avanti nel percorso di ‘accettazione’ e il tergiservare non può che danneggiare prima di tutto il comparto agricolo. In particolare se si continua ad ascoltare la litania del «...adesso partono i Psr», si rischia di perdere per strada annualità e risorse. Le colpe dell’Unione europea non mancano, ma non si può dimenticare che in molti Paesi del Vecchio Continente - e le Regioni italiane in tal senso spesso hanno brillato - non si sono riuscite a spendere nemmeno tutte le dotazioni finanziarie. Certo che, nel settore della meccanizzazione, va sottolineato come non siano state neanche inserite misure specifiche per gli investimenti sulle nuove tecnologie e, ancora oggi, si evidenzia l’anacronistica esclusione degli agromeccanici da qualsiasi contributo. Aspetti (forse) migliorabili solo con tenacia di dialogo. E con grande, grande equilibrio.