Nel terzo trimestre 2019 spicca, tra i dati inerenti all’economia italiana, un calo di attività per l’agricoltura a fronte di aumenti, seppur contenuti, del valore aggiunto reale per l'industria e per l'insieme del terziario. Lo rivela l’Istat, secondo la quale il Pil totale è aumentato dello 0,1% rispetto al trimestre precedente e dello 0,3% in termini tendenziali. L'agricoltura è a conti fatti l'unico settore produttivo a far registrare un calo congiunturale del valore aggiunto anche per effetto della deflazione nei campi. Esempi concreti, secondo Coldiretti, arrivano dal settore della frutta, con le specialità estive, come albicocche e pesche, che sono state pagate circa il 30% in meno rispetto al 2018, spesso al di sotto dei costi di produzione. “Gli agricoltori - sottolinea l’organizzazione professionale - per potersi permettere un caffè devono vendere tre chili di frutta sulla quale pesano quest'anno i drammatici attacchi della cimice asiatica che nelle regioni del Nord ha distrutto i raccolti in numerose aziende. Serve intensificare l'attività di controllo e vigilanza anche per evitare che vengano spacciati come nazionali prodotti importati ma è anche necessario al più presto il recepimento della direttiva (UE) 2019/633 in materia di pratiche commerciali sleali del 17 aprile 2019 per ristabilire condizioni contrattuali più eque lungo la catena di distribuzione degli alimenti, con l'introduzione di elementi contrattuali e sanzionatori certi rispetto a prassi che finora hanno pesantemente penalizzato i produttori”.
La non facile situazione delle imprese agricole è stata analizzata in questi giorni anche dal rapporto The European Hours Ambrosetti. Dallo studio emerge che il comparto agroalimentare italiano, che parte dal campo e arriva a negozi e ristoranti, è a oggi la prima filiera estesa del Paese, vantando un fatturato da 538 miliardi di euro, pari al Pil di Norvegia e Danimarca insieme, generando un valore aggiunto di quattro volte più alto rispetto alla filiere dell’automotive e dell’arredo messe insieme. Nonostante ciò, il rapporto non esita a definire il settore come “povero”, perché ogni cento euro di consumi alimentari vanno alle imprese poco più di 5 euro di utili e, la maggioranza di questi, è incassata dalle grandi industrie alimentari. Secondo il rapporto, che mira a sfatare miti e fake news, l'industria di trasformazione incassa il 43,1% degli utili della filiera, quasi quattro volte di più di quanti vanno alla distribuzione (11,7%). E il mercato è dominato da 57 grandi aziende, in gran parte multinazionali, che hanno una quota di utili del 13,4%, superiore a quella della distribuzione e pari a quasi il doppio di quello della ristorazione (7,8%). La restante parte è divisa tra agricoltura (17,7%) e intermediazione (19,6%). "La filiera agroalimentare in Italia produce poco utile per i suoi azionisti diretti e la ripartizione di questo utile è dominata dall'industria, con una quota in crescita significativa negli ultimi sei anni", è il messaggio che lancia Pugliese con il presidente di Federdistribuzione, Claudio Gradara, il presidente di Coop Italia, Marco Pedroni, e il presidente di Adm, Giorgio Santambrogio. Santambrogio chiede alla politica di considerare invece la filiera alimentare "un patrimonio nazionale da coltivare e sviluppare". Anche perché, come illustra il managing partner e ceo di Ambrosetti, Valerio De Molli, "è il settore con la maggiore propensione all'investimento (10,8 miliardi di euro)", dei quali 3,1 miliardi vengono dalla distribuzione”. Per questo Molli definisce un "suicidio per la crescita" ogni politica che porti un taglio degli investimenti. "Negli ultimi anni il livello di investimenti è stato costante, ma ora la prospettiva è complicata perché non c'è una ripresa", aggiunge Gradara che sottolinea l'importanza per i consumi delle aspettative e del clima di fiducia.
Emiliano Raccagni