Fonti energetiche fossili e fertilizzanti chimici sono due delle risorse limitate da cui la maggior parte dell’agricoltura oggi è fortemente dipendente. Il fosforo è un buon esempio della misura di questa dipendenza: l’80% di quanto estratto a livello mondiale viene utilizzato per la produzione di fertilizzante. L’efficienza di utilizzo da parte di piante o animali è però inferiore al 20%. Il resto viene dilavato o finisce nei reflui o rimane nel suolo. A quali costi? Al di là dei ben noti problemi ambientali legati all’eutrofizzazione delle acque o all’inquinamento delle falde, si noti che il costo delle rocce fosfatiche, da cui il fertilizzante è estratto, è passato tra il 2007 e il 2008 da 50 a 400$/tonnellata. Questi costi, che il fosforo per altro condivide con gli altri fertilizzanti chimici, incidono notevolmente sul bilancio economico dell’azienda agricola. Vi è poi lo spettro di una razionalizzazione delle estrazioni e quindi di una diminuzione della disponibilità legata alla crescente domanda di fertilizzanti. Ma il fosforo è necessario: la crescita delle piante e la resa dei raccolti dipendono dalla disponibilità di questo minerale, nella giusta quantità e al momento opportuno.
Uno studio condotto dall’Università di Bangor, Regno Unito, si è posto la domanda se sia possibile realizzare una gestione più sostenibile ed efficiente del fosforo e sottolinea la necessità di un nuovo modo di pensare la fertilizzazione: “Oggi si nutre il suolo prima ancora che la pianta - afferma Paul Withers, uno degli autori dello studio – Il fertilizzante viene cioè distribuito sul suolo nella speranza che la pianta ne assorba quanto ne ha bisogno. Ma cambiando questo metodo e distribuendo in maniera mirata, si riuscirebbe ad aumentare l’efficienza di utilizzo del minerale e quindi a poter diminuire le quantità distribuite e perse sui campi” Concretamente? Diverse le proposte. Innanzitutto quella di aumentare la capacità della pianta stessa di assorbire il minerale, selezionando varietà o con una maggiore efficienza di utilizzo del fosforo o con un apparato radicale più ampio. Quindi l’uso di fosforo “di seconda mano”. Reflui zootecnici, residui agricoli, ma anche ceneri e scarti urbani contengono elevate quantità di fosforo non recuperate. Uno degli esempi più eleganti di un buon recupero di fosforo “di seconda mano” è l’utilizzo del digestato sui campi in sostituzione del fertilizzante chimico. La digestione anaerobica, infatti, poco cambia alla composizione minerale del fosforo nel digestato. Quanto si accumula nei reflui si ritrova nel digestato che, riportato sui campi, chiude il cerchio del minerale potendo sostituire la fertilizzazione chimica. Non da ultimo si potrebbe aumentare l’efficacia delle fertilizzazioni distribuendo il minerale in maniera puntuale quando e laddove la pianta lo possa meglio assorbire: attorno alle radici, sulle foglie, sui semi. Combinando queste strategie, si potrebbe ridurre la necessità di fosforo di prima mano e la contaminazione delle acque che ha accompagnato la crescita della popolazione, l’espansione agricola e l’urbanizzazione nelle recenti decadi.
Lo studio in questione è disponibile in inglese qui.
A cura di Maria Luisa Doldi