Le spese di produzione nel 2011 sono aumentate enormemente e i produttori sono aggravati anche da previdenza, burocrazia e dall’arrivo dell’IMU.
Nel 2011 i guadagni degli imprenditori agricoli sono serviti appena a coprire i costi di produzione, con conseguenze negative non solo sui redditi, ma anche sulle intenzioni di semina per il prossimo futuro. La conferma è arrivata dall’Istat, che sottolinea come, nell’ultimo trimestre dell’anno, i prezzi dei prodotti venduti dagli agricoltori sono cresciuti del 4,9%, ma nello stesso lasso di tempo anche la spesa per i fattori produttivi è salita quasi altrettanto. Anche la variazione media annua dei due indici dimostra quanto la situazione degli agricoltori sia drammatica: i prezzi all’origine sono aumentati complessivamente dell’8,4%, ma contestualmente anche i costi di produzione sono schizzati su del 6,3% annuo.
La CIA (Confederazione italiana agricoltori) osserva come l’incremento sia insostenibile, soprattutto perché alle spese produttive vanno aggiunti anche i costi contributivi, previdenziali e burocratici. Con la conseguenza che gli agricoltori di fatto continuano a produrre in perdita, o quasi.
Tra i costi di produzione, a pesare di più sulle tasche delle aziende nel 2011 sono stati l’energia e i lubrificanti (+13,2%), spinti in alto dal “caro-gasolio” e poi i concimi (+15,8%), i mangimi (+10,6%) e le sementi (+5,8%).
Il rialzo delle quotazioni sui campi, tuttavia, non è sufficiente a far ripartire i redditi dei produttori, se non è accompagnato da un parallelo calo dei costi e degli oneri che pesano sulle imprese. Gravami che nel rapporto del 2012, evidenzia la Cia, potrebbero invece aumentare ancora, e in maniera esponenziale.
Nel frattempo, l’ennesimo aumento dei costi di produzione ha già prodotto un primo evidente effetto negativo: nell’annata agraria 2011-2012 si registra, rispetto all’annata precedente, un aumento del 5,5% delle superfici lasciate a riposo. E la CIA fa notare come, tra le motivazioni addotte dagli agricoltori per questa scelta, ben il 21% dà la colpa proprio alla scarsa remunerazione dell’attività e all’incertezza del mercato.