Il mondo del vino italiano è formato da una miriade di aziende piccole a conduzione familiare che possono puntare a crescere facendo leva soprattutto su due fattori: la propensione all’export e con l’incentivazione all’enoturismo. Magari seguendo il modello sviluppato negli ultimi anni soprattutto nella Napa Valley in California. Ma in Italia è anche attiva una minoranza di super aziende, 25 in tutto, che presentano un fatturato superiore ai cinquanta milioni di euro e per le quali la commercializzazione delle proprie bottiglie all’estero pesa anche fino al 60% dell’intera produzione. Una quota certo alta, che potrebbe però ancora salire. È quanto certifica il rapporto Wine Monitor redatto dall’istituto di ricerca Nomisma, secondo il quale la propensione all’export, per le cantine italiane, è in termini percentuali inversamente proporzionale alla dimensione: scende al 40% nelle imprese che fatturano tra i dieci e i venti milioni di euro fino a toccare quote sempre più marginali per quel 70% di aziende la cui produzione non supera i cento ettolitri di vino all’anno. “Gran parte delle realtà produttive di casa nostra –precisa il responsabile agricoltura e industria alimentare di Nomisma Denis Pantini – ha necessità di crescere, dato che la crisi ha ridotti i consumi, soprattutto nei ristoranti, e questo porta inevitabilmente a pagare un prezzo alto proprio il mondo del vino, che ormai punta decisamente sulla grande distribuzione, come dimostra il 65% del peso rappresentato ormai per le vendite sul mercato interno”.
Attrattività in crescita. Ma non ci si può e non ci si deve arrendere, facendosi forti soprattutto del crescente interesse per il mondo dell’enogastronomia e del potenziale turistico da sfruttare. Basti pensare che se fino a dieci anni fa il 6,5% dei turisti stranieri indicava proprio cibi e vino come motivo principale d’attrazione per l'Italia, oggi questa cifra è salita al 10%. Il punto è sfruttare al meglio questa propensione, cosa che fino a questo momento il sistema Italia non è ancora riuscita a fare in proporzione alle potenzialità. Perché, quindi, guardare alla California? La risposta è, come spesso accade, nei numeri: secondo Nomisma, le aziende della Napa Valley, che occupano un’area grande come due terzi della provincia di Verona, riescono ad attrarre ogni anni tre milioni di enoturisti, che acquistano direttamente in cantina per 745 milioni di dollari e danno lavoro a tutto il sistema della ricezione: un indotto che pesa fino a un miliardo di dollari tra ristorazione e alberghi.
Puntare sull’enoturismo. In Italia, di zone come la Napa Valley, capaci di puntare su un’eccezionale offerta ricettiva fatta di vino ma anche di cultura, paesaggi e tradizioni se ne potrebbero contare a decine. Quello che manca, insomma, è una reale ed estesa capacità di mettere tutte queste ricchezze a sistema, per offrire al visitatore un’offerta completa e irrinunciabile, che faccia leva su un potenziale finora inespresso. Si tratta di capire, come sottolineato dallo studio, come lavorare al meglio per cogliere le opportunità dell’enoturismo, se saremo in grado di superare questi nostri limiti per garantire una sostenibilità di lungo periodo alle imprese del settore. L’enoturismo, in Italia, è ormai un fenomeno di successo, tanto che ogni anno ben 5 milioni di persone visitano i grandi territori del vino, le loro cantine, i ristoranti, le enoteche, generando un giro d’affari di 4-5 miliardi di euro. Tanti, non c’è dubbio. Ma si può fare di più, molto di più.
Articolo di Emiliano Raccagni